Giustizia ed espulsioni

Articolo pubblicato nel Corriere del Ticino nel febbraio 2016.

11 ex consiglieri federali si sono uniti in un appello che chiede di respingere l’iniziativa dell’UDC sull’espulsione degli stranieri criminali. In precedenza lo avevano fatto duecento professori di università e molte altre personalità.
Questi appelli non cambieranno il corso degli eventi, ma rendono necessaria un’interpretazione del perché di questa mobilitazione contro l’espulsione dei criminali stranieri condannati in Svizzera: è infatti raro che personalità così importanti si lancino in una battaglia contro un sanzione di carattere penale che a prima vista potrebbe apparire ragionevole.
Io la vedo così. Non è contro il principio dell’espulsione che consiglieri federali e professori si scagliano: quella sanzione a carico di criminali di origine straniera è sempre esistita ed è pure stata molto spesso applicata sia da parte dei tribunali che dell’autorità amministrativa preposta al controllo della popolazione straniera, quella che un tempo si chiamava “polizia degli stranieri” ed ora ha un nome meno duro. Ad essere contestata in realtà è la sostituzione dell’organo competente a decidere la sanzione a carico di quei criminali: non più un giudice o un’autorità amministrativa, ma un organo politico.
Un tempo, prima delle grandi rivoluzioni liberali del 18. e19.esimo secolo, la cosiddetta “giustizia” era nelle mani dei politici: in genere i re, i principi, i loro vassalli. Ma anche altri capi oppure la Chiesa o altre autorità religiose o – per restare qui da noi – i landfogti ed i balivi oppure ancora, per venire più vicini nel tempo, polizie al servizio di dittature come la Gestapo o la Stasi amministravano la “giustizia”, alla loro maniera, in via diretta oppure per il tramite di tribunali a loro sottomessi. Tutti questi capi decidevano della colpevolezza e delle pene, in virtù del loro potere politico, e le facevano eseguire.
La storia ha bollato di “barbarie” questo tipo di condanne, la cui ingiustizia con il tempo è stata smascherata. La civilizzazione ha poi portato alla sostituzione della competenza di queste autorità di fatto o di diritto, tutte comunque esercitanti un potere politico, con dei giudici, voluti indipendenti e legati alla regola del solo rispetto della legge. I politici (possibilmente i Parlamenti e il Popolo, come nelle democrazie) fanno le leggi, i giudici le applicano pronunciando le condanne, dopo avere esaminato il caso e il livello della colpa.
Anche se non sempre pienamente rispettato, questo principio della separazione delle competenze (dei poteri, si dice normalmente) ha fatto breccia e da allora l’amministrazione della giustizia viene rispettata. Certo non mancano le critiche all’una o all’altra condanna o mancata condanna, ma il sistema tiene e sostanzialmente soddisfa.
L’iniziativa dell’UDC ha il difetto di togliere al giudice la competenza di infliggere una pena (l’espulsione dal Paese) per affidarla a un meccanismo automatico, voluto da un organo politico: questa volta il “popolo”. Ancora un a volta ad amministrare la “giustizia” sarebbe chiamato un organo politico e non un organo indipendente capace di valutare le circostanze del reato e la situazione dell’imputato sarebbe chiamato ad infliggere una pena, l’espulsione.
Chi vota sì all’iniziativa può anche pensare di fare solo una scelta politica e cioè di rafforzare l’effetto dissuasivo legato alla pena dell’espulsione. In effetti, però, egli si inserisce in ogni processo, in tutti i futuri processi che riguardano stranieri, imponendo al giudice (senza possibilità di scelta e senza tener conto delle circostanze del delitto e della colpa) di espellere il condannato dal Svizzera. Nessun esame di opportunità: il giudice sarà solo un “robot”.
Questo imporre un meccanismo per ottenere sempre e senza eccezioni l’espulsione dei condannati stranieri è un passo indietro che molti giustamente temono. Soprattutto lo temono coloro che credono nei principi della democrazia liberale, che fa della separazione dei poteri un principio fondamentale della sua visione di società. E può anche avere effetti paradossali, a cui spesso non si pensa. Se un giudice trovasse iniquo espellere un criminale nato e cresciuto qui da noi, per esempio perché ha sottaciuto nella domanda di un sussidio sociale per la madre l’esistenza di fondi neri potrebbe, invece di rinunciare all’espulsione, rinunciare alla condanna. Se condannando devo pronunciare l’espulsione di un ticinese di fatto, nato qui pur se senza passaporto – potrebbe dirsi – allora non lo condanno affatto e lo metto al beneficio del dubbio.
Raramente lo “strafare” è produttivo. Il Parlamento, dopo la precedente scelta popolare, ha elaborato una regola durissima in materia di espulsioni. Durissima, ma affidata al giudice, che la saprà utilizzare con “giudizio”. Quale “giudizio” si può invece esercitare senza sapere nulla sui futuri casi di condanna? Lasciamo al popolo le scelte politiche fondamentali e non obblighiamolo a farsi giudice incosciente in casi che nemmeno può conoscere.

Nota: il 28 febbraio 2016 il popolo svizzero ha respinto l’iniziativa con il 63% di voti contrari